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COMMEMORATA ALL’UNIVERSITA’ DELLA TUSCIA A VITERBO LA FIGURA DEL PROF. ROBERTO MINERVINI AD UN ANNO DALLA SUA SCOMPARSA

Si è svolta stamattina a Viterbo la prevista cerimonia in ricordo del Prof. Roberto Minervini nell’aula magna dell’università della Tuscia, presso la quale ha insegnato Biologia della pesca e acquacoltura. La cerimonia era stata organizzata dall’associazione Accademia Kronos, di cui Roberto era stato per molti anni responsabile scientifico.

Ennio La Malfa ha introdotto la cerimonia parlando della competenza e dell’impegno di Roberto nell’associazione ed ha letto un messaggio del sindaco di Orvieto, città di residenza del professore, il quale ha ricordato in particolare “il suo impegno politico, le sue capacità professionali, il suo impegno civile e a tutela dell’ambiente e del territorio, ma soprattutto le sue grandi doti umane”.

La professoressa Anna Maria Fausto, Docente e Pro-Rettore della stessa Università, ha ricordato-non senza commozione- le collaborazioni avute con Roberto, la sua competenza e la sua straordinaria umanità. Il prof. Giuseppe Nascetti, direttore del Dipartimento di Ecologia e Biologia dell’Università della Tuscia, ha parlato della sua amicizia con Roberto da studenti all’Università di Roma per poi ritrovarsi molti anni dopo a lavorare insieme al Centro Ittiogenico Sperimentale Marino di Tarquinia. E’ poi intervenuto l’amico dott. Uranio Mazzanti.

E’ stata poi la volta di Vittorio Fagioli e di Mauro Favero, delle associazioni, che visibilmente commossi, hanno tracciato il loro ultradecennale rapporto con Roberto ed il loro impegno -per onorarne la memoria e l’insegnamento- a portare avanti con più determinazione la battaglie che avevano visto Roberto in prima fila. Ne sono testimonianza la nascita della sezione orvietana di Accademia Kronos con la presidenza affidata ad Amelia, moglie di Roberto, che ha inteso così continuare l’impegno del marito, il Parco Culturale in definizione ad Orvieto che porterà il nome di Roberto, la nuova collaborazione di Vittorio Fagioli con la rivista “AK informa” che partirà le prossime settimane sui temi dell’ecologia, ed in particolare sul tema geotermia, che proprio nei giorni scorsi ha visto –dopo anni di impegno a cui aveva partecipato anche Roberto- cadere finalmente due tabù: l’Europa prende atto che la geotermia può essere inquinante e per la prima volta il Tribunale di Grosseto incrimina l’ENEL per inquinamento ambientale per via delle emissioni prodotte dalle sue centrali geotermiche in Amiata.

E’ stato quindi proposto, prima di terminare la cerimonia, una futura edizione di un “premio alla memoria del Prof. Roberto Minervini” – di cui si farà attrice l’associazione Accademia Kronos- rivolto al mondo universitario perché non vadano dispersi la sua capacità professionale ed il suo impegno civico.

2 gennaio 2017 – 2 gennaio 2018. In ricordo di Roberto Minervini

Ho conosciuto il professore Roberto Minervini ad una assemblea a Benano nel 2005. C’era un fermento nel borgo perché volevano fare una cava di basalto sulla spianata dell’ex-aeroporto di Orvieto che costeggia, a destra, la strada che da Castel Giorgio raggiunge Castel Viscardo. E tra gli abitanti del borgo, arrivato da pochi anni, c’era Roberto Minervini, il “professore” come molti lo chiamavano.

Ci intendemmo subito e fummo a fianco delle più importanti vertenze che hanno contraddistinto in questi anni Orvieto e l’Alfina. Fummo insieme nelle lotte alle cave, in particolare Benano che vincemmo e da cui nacque il Parco Culturale che il comune di Orvieto sta ora realizzando o alla cava di Torre Alfina i cui titolari sono stati recentemente condannati dal Tribunale di Viterbo, all’eolico sul Monte Peglia che ora -dopo la fine di questo insidioso progetto- è candidato al Programma MAB dell’Unesco, alla geotermia elettrica speculativa che ha visto proprio qualche giorno fa la bocciatura ad opera del Governo Gentiloni dell’impianto pilota geotermico di Torre Alfina. Per non parlare degli impianti a biomasse di Fabro e Castel Viscardo e l’inquinamento da mercurio nella valle del Paglia, come eredità della geotermia in Amiata.

Roberto aveva dato un impulso importante alla nascita della Rete Nazionale NOGESI che lotta contro la geotermia elettrica speculativa ed inquinante. Era stato nominato negli ultimi anni dal coordinamento delle associazioni dell’Orvietano come referente del tavolo ambiente del Contratto di fiume del Paglia-Chiani e del Basso Tevere Umbro e in questa qualità aveva dato un contributo notevole a questo progetto, di cui è capofila il Comune di Orvieto.
Intanto si era associato ad Accademia Kronos e ne era divenuto il responsabile del Comitato Scientifico che ha raggruppato in questi anni professori universitari ed esperti di alto livello. Il 20 gennaio 2012 sono stato insignito del riconoscimento internazionale “Un bosco per Kyoto” a Roma al Campidoglio: anche questa era stata una iniziativa di Roberto che perorò la mia candidatura.

L’ultima cosa che ricordo di Roberto- ma ormai la malattia era molto avanti- fu il voler accompagnare a Latera il giornalista Angelo Mastrandrea e la fotografa Silvana Pampalona della rivista “Internazionale” per fare un articolo –che verrà pubblicato dopo la sua morte– su quella sciagurata vicenda della geotermia del 2000, che forse lo aveva segnato.

Vittorio Fagioli, Coordinamento associazioni dell’Orvietano, Tuscia e Lago di Bolsena & Rete Nazionale NOGESI (NO alla geotermia elettrica speculativa e inquinante)

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UN ANNO FA CI HA LASCIATO ROBERTO MINERVINI

Un anno fa ha abbandonato questo mondo Roberto Minervini, mio marito. Troppo presto. Quel fastidio allo stomaco era in realtà l’ultimo segnale di una malattia con cui ha sperato fino all’ultimo di poter battagliare.
Il mio sarà un ricordo personale e mi piace iniziare con le parole di Karen Blixen nel film “La mia Africa” in ricordo del suo compagno che come Roberto è un essere libero, geloso della propria indipendenza, che appartiene solo a sé stesso e non vuole per sé una vita imposta dagli altri. «…L’anima di Denys… ci ha portato tanta gioia, e noi l’abbiamo tanto amato. Non è mai stato nostro, non è mai stato mio».
Ci eravamo incontrati nel luglio del 1970 a Piazza Navona dove lui vendeva foto su Roma e personaggi vari, sue e di un suo amico, per finanziare un viaggio in India con la Dyane 4 appena ordinata. Poi l’auto arrivò in ritardo, l’amico si iscrisse a Sociologia a Trento e il viaggio saltò. Non fu un colpo di fulmine, ma tra le tante foto scelsi un gruppo di 3 foto che raffiguravano due barboni (un uomo ed una donna seduti su una panchina che si scambiavano un fiasco di vino) le aveva scattate lui e forse era un segno… Mi colpì questo ragazzo entusiasta di quello che faceva e con la capacità di parlare con la stessa semplicità con tutti. Amante della natura, da piccolo quando tutti facevano la raccolta delle figurine dei calciatori, lui faceva quella degli animali. Appassionato del mare e della pesca fin da piccolo quando trascorreva quattro mesi al mare e a furia di stare con la testa in acqua per pescare diventava biondo, lui così scuro e mediterraneo.
Si laureò poi in Biologia nel 1976 con 110/lode ed una tesi su eco-etologia del luccio del Lago di Piediluco. Assiduo frequentatore dello Stabilimento Ittiogenico di Roma e del Laboratorio Centrale di Idrobiologia, entrambi del vecchio Ministero dell’Agricoltura, si specializzò nell’idrobiologia sia d’acqua dolce che marina nei cui ambiti ha svolto consulenze un Italia e varie parti del mondo. Dal 2002 diventa docente, in alcune Università italiane, nei settori dell’idrobiologia e dell’acquacoltura.
Costituì nel 1978 una Cooperativa di Pesca e Acquacoltura, i cui soci erano tutti biologi, che operò in Italia e all’estero. Entusiasta del suo lavoro, sia che si trattasse di andare in luoghi lontani: Africa, America Latina, Est Europeo, che di progettare nuove forme di acquacoltura o pesca in Italia. Per 19 anni ha gestito la vallicoltura del Lago di Sabaudia(Latina). Dal 1983 al 1988 ha avviato e gestito il Centro Ittiogenico del Trasimeno.
Dal 1990 avevamo cominciato a lavorare insieme ad alcuni progetti: un progetto di pesca in Libia, un ristorante di pesce a Roma, Latera.
Poi nel 2000 con alcuni soci in cooperativa, avevano preso in affitto cinquemila metri quadri delle Serre di Latera (Viterbo) che dovevano sfruttare l’acqua calda in uscita dalla centrale geotermica, con l’idea di mettere in piedi un allevamento di pesci destinati agli acquari e un vivaio di piante ornamentali. Ma era finita molto male e forse quella batosta lo aveva colpito molto più di quello che voleva far vedere.
Alla sua morte è stato bello vedere che i ricordi di colleghi o amici avevano tutti dei tratti in comune: un uomo gentile, elegante, colto mai arrogante, la sua voce sempre rassicurante e i suoi toni sempre pacati.
Abbiamo trascorso insieme 45 anni, tranne qualche breve periodo di lontananza all’inizio, durante i quali non mi sono mai annoiata. C’era sempre un progetto da fare insieme.

Amelia Belli Minervini

E’ morto il professor Roberto Minervini, prezioso collaboratore dei comitati

Con immenso dolore comunico che si è spento ieri, all’Ospedale di Terni, il professore Roberto Minervini.

I funerali si terranno domani 4 gennaio 2017 alle ore 15.00 nella chiesa di Benano (all’interno del borgo).

Biologo marino, insegnante universitario, presidente del comitato scientifico di Accademia Kronos, animatore del coordinamento dei comitati e delle associazioni dell’Orvietano, della Tuscia e del Lago di Bolsena. Autore di libri di successo, ci piace ricordare il suo “E venne primavera” particolarmente sospeso tra il mondo della città e della campagna. Animatore fino all’ultimo delle battaglie per un diverso modello di sviluppo, aveva diretto il recente convegno di Acquapendente contro la geotermia speculativa sull’Alfina.

A chi gli diceva di essere “ambientalista” rispondeva che lui si riteneva -e lo era fino in fondo- un “naturalista”. 

Vittorio Fagioli – Rete NoGESI

Vogliamo ricordare il suo impegno con uno degli articoli da lui scritti nel 2007, quando lo abbiamo conosciuto: “La Renara: tra politica e polli colorati”.

 

ASSOCIAZIONE A P E ORVIETO
La Renara: tra politica e polli colorati

“De Ars Venandi cum Avibus” scriveva quel grande uomo di cultura che è stato Federico II, “De Ars Venandi…” “Sull’arte della caccia…” diceva appunto Federico, già nel tredicesimo secolo, a proposito del suo “manuale” in cui insegnava (ed insegna tuttora!) a cacciare con i falchi.

La caccia quindi vista come arte o almeno come quell’insieme di conoscenza, dedizione e sentimento che unisce le menti e scalda i cuori attorno ad un sentire comune. Ma può la caccia, ancora oggi, definirsi un’arte? Non ci sono dubbi: certamente no! O almeno non da noi. La caccia nel nostro Paese non può sicuramente aspirare ad avere un ruolo di alto rango fra le discipline che possono crear svago all’uomo in quanto, a nostro modesto ma risoluto parere, sono ormai troppo decadute quelle conoscenze “artigiane” se non artistiche che sottendono alla capacità di eccellere in una determinata disciplina. Come può esserci arte senza conoscenza?

In Paesi che la pensano diversamente da noi come la Francia la cultura della caccia ancora esiste e viene tutelata. In Francia infatti esistono tutt’ora i trappolatori, si pratica la caccia in tana e si va a caccia agli acquatici anche in barca (come logica vorrebbe) e si può fare la posta alle anatre anche di notte. Il tutto naturalmente con grande rigore pianificatorio, basato anche sulle tradizioni e consuetudini dei luoghi, e sulla base di dati raccolti anno dopo anno anche con la collaborazione degli stessi cacciatori e degli agricoltori. Così, in buona sostanza, si è consentita la sopravvivenza di pratiche di cattura della selvaggina che in qualche caso ci possono anche apparire imbarazzanti. Ma lo spirito che ha voluto consentire la caccia alla volpe o al tasso nelle tane con quei terribili cagnetti che sanno essere i Jack Russel e i bassotti o la caccia al tordo con quelle trappole micidiali che sono gli archetti è quello, totalmente privo di demagogia, che pone sullo stesso livello di importanza sia la salvaguardia della specie che il mantenimento delle tecniche maturate nella storia dell’uomo per catturarla. Quello che conta, se non si è degli animalisti convinti (ma anche, per coerenza, assolutamente vegetariani), è che la specie, comunque catturata, non sia in forte rarefazione.

Questa logica, sempre a nostro modesto parere, non fa una grinza a meno che non si voglia facilmente immaginare che una fucilata sia più pietosa di un archetto, dimenticando quante non poche sofferenze può generare una fucilata maldestra in un animale ferito. Forse, a questo proposito, vale la pena ricordare quanto asserisce un noto professore di Ecologia dell’Università Federico II di Napoli il quale spiega, a stupiti studenti cittadini, che in Natura la morte giunge quasi sempre in maniera violenta. Il lento declino di un animale, magari sostenuto dai propri simili, è noto solo per l’uomo. Probabilmente Walt Disney ed il suo cartone animato più famoso “Bamby” hanno fuorviato un’intera generazione contribuendo a scardinare quella conoscenza, o meglio quella cultura, che ci legava alla terra e al territorio e di cui la caccia, con i più sani principi di allora, faceva parte integrante.

In questo contesto di incultura nascono quindi questioni come quella dell’area di ripopolamento della Renara dove un manipolo di cacciatori ne rivendica l’apertura alla caccia.

La nostra Associazione, che ormai da tempo si batte per la salvaguardia paesaggistica ed il miglioramento della qualità della vita nel comprensorio di Orvieto, ha deciso di prendere posizione sulla questione in quanto riteniamo che l’apertura all’attività venatoria dell’area della Renara costituirebbe un ulteriore vulnus alla dequalificazione del territorio.

A causa infatti della cattiva gestione dell’attività faunistico-venatoria nell’intero comprensorio l’apertura della Renara non servirebbe assolutamente al miglioramento dell’attività venatoria. L’apertura infatti di aree in qualche modo interdette all’esercizio venatorio genera un beneficio per la caccia solo in maniera fortemente temporanea. Come i cacciatori ben sanno ci vuole molto poco, specie poi con controlli praticamente inesistenti, a spopolare un’area. Dopo una “ubriacatura” iniziale, a vantaggio perlopiù dei cacciatori maggiormente dotati di tempo libero, la Renara diverrebbe un altro angolo del nostro territorio caratterizzato da cronica povertà faunistica, sia per la stanziale che per la migratoria. Offrire più territorio ai cacciatori avrebbe senso solo in un contesto di contenuta pressione venatoria dove le specie oggetto di caccia potrebbero comunque avere il tempo e lo spazio per un progressivo recupero delle loro popolazioni. Lo testimonia il fatto che dagli anni ottanta ad oggi il numero dei cacciatori sul territorio nazionale si è ridotto a circa un terzo passando da oltre due milioni agli attuali settecentomila circa. Se si esclude la specie cinghiale ed altri ungulati, che hanno tra l’altro risvolti particolari nelle motivazioni che hanno consentito il loro sviluppo demografico, non si può certo dire che negli anni al drastico ridursi dei cacciatori sia poi corrisposto un sensibile aumento della selvaggina. Forse per le specie migratrici possono essere intervenuti un insieme di fattori che ne hanno limitato il recupero numerico, ma per le specie stanziali non può che essere determinato da gravi difetti di gestione.

Evidentemente la gestione delle risorse faunistiche naturali è materia complessa che non può essere praticata in maniera estemporanea o clientelare o per avere risonanza politica sul territorio.

Alla cronica impreparazione di molte Amministrazioni preposte alla gestione della caccia e della pesca si aggiunge quella della massa informe dei cacciatori, relegati per troppi anni in posizioni difensive, annichiliti dai colpi inferti dagli ambientalisti che hanno trovato nei cacciatori un comodo bersaglio per vincere facili, ma appariscenti battaglie politiche ignorando, probabilmente per calcolo politico, le grandi e sostanziali convergenze che avrebbero potuto unire ambientalisti e cacciatori (e pescatori) contro i veri nemici dell’ambiente quali l’inquinamento, l’abusivismo edilizio, l’elettrificazione senza rispetto del paesaggio, le cave, l’eccesso di chimica in agricoltura, il dissesto idrogeologico e, purtroppo, tanto altro ancora.

Come ci si può quindi stupire che risorga ancora un banale e potremmo definire primitivo contendere tra ambientalisti e cacciatori. Ancora una volta un tiro alla fune puerile su un problema che non c’è. La caccia è questione, in Umbria specialmente, di troppo largo interesse ed i contesti locali in cui sorgono ripetute querelle sono solo le avvisaglie di un malessere generale che coinvolge la gestione globale della caccia nella nostra Provincia.

Nel nostro comprensorio si commettono ancora errori gestionali madornali, ormai aboliti altrove. Da noi per effettuare i ripopolamenti di fagiani, pernici o altro (senza neanche troppi scrupoli di introdurre specie alloctone come la Ciukar) si usa “acclimatare” i giovani esemplari in recinti appositamente predisposti dai quali, dopo molte settimane di allevamento, verranno liberati. Il risultato è veramente penoso. A chi non è capitato infatti di vedere queste sparute nidiate di polli colorati che, prive sia dei genitori naturali che di quello adottivo (l’allevatore), girano senza meta e totalmente prive dei rudimenti essenziali per sopravvivere nell’ambiente libero. Cosa rimarrà alla caccia, quella vera intendiamo, di così scadente materiale biologico? Che fine hanno fatto i concetti base dell’Etologia che vogliono nell’apprendimento dei piccoli dagli adulti la base essenziale ed irrinunciabile per la loro sopravvivenza in Natura?

Povero Konrad Lorenz, il grande premio Nobel dell’Etologia si rivolterà nella tomba a sentire che misera fine hanno fatto le sue fondamentali scoperte sul comportamento animale.

Per migliorare il livello dell’attività venatoria riteniamo quindi che sia indispensabile tentare di ottimizzare le risorse finalizzandole al risultato e se si vuole offrire più territorio alla caccia libera queste aree non vanno requisite fra quelle interdette alla caccia, che comunque svolgono un sano ruolo di irraggiamento faunistico nelle aree limitrofe di selvaggina “vera”, basterebbe invece approfondire come vengono gestite le riserve faunistico-venatorie del comprensorio per verificare se effettuano i ripopolamenti previsti e se si attengono scrupolosamente alle prescrizioni previste in materia, probabilmente non sempre è così. Non si comprende infatti come mai attraversando una riserva di caccia in Toscana si vedono spessissimo fagiani al pascolo, mentre attraversando le riserve della nostra Provincia la visione di un fagiano o di una starna è un evento che desta profonda emozione per la sua unicità. Ebbene, volendo ricordare che la funzione delle aziende faunistico-venatorie non è solo quella di sottrarre territorio a molti per il vantaggio di pochi, suggeriamo che siano questi i territori da aprire alla caccia libera, si otterrebbero così due vantaggi: soddisfare le richieste di chi spera nell’ampliamento del proprio ambito venatorio ed eliminare una presenza parassitaria che favorisce pochi privilegiati non rispettosi delle regole.

In questo ci aspettiamo precise prese di posizione da parte dei politici e dei funzionari preposti, il tema è stimolante e un operare fattivo per affrontarlo, nell’interesse più generale e di sicuro e ampio riscontro, sarebbe foriero di consensi e di partecipazione dei tanti interessati.

A questo proposito c’è da aspettarsi comunque che anche i cacciatori escano dalle loro tane, sarebbe bello rivederli nei vecchi “Circoli della caccia” dove si giocava a carte e a biliardo e si raccontavano episodi, tra il vero ed il faceto, delle giornate di caccia.

Serate serene e rilassanti che aiutavano il vivere quotidiano e consentivano quegli scambi di opinioni e di informazioni di cui oggi si sente forte la mancanza. Le Associazioni venatorie hanno ormai completamente perso il contatto con i loro rappresentati, sono sostanzialmente diventate delle agenzie di assicurazioni, contano i propri affiliati in base alle polizze. Ma quali sono i momenti di confronto? A parte qualche pranzo e qualche sagra paesana non c’è dialogo, non c’è partecipazione.

Forse a molti sta bene così, ma la caccia, se la si vuole gestirla bene, è soprattutto, oggi più che mai, gestione territoriale fra agricoltori e cacciatori, con la partecipazione delle Associazioni che ne raccolgono le istanze. Non si ha l’impressione che nel nostro comprensorio la caccia venga gestita in questo modo, di conseguenza, per trovare un fagiano vero e non un pollo colorato o una lepre perfettamente inserita nel suo giusto territorio bisogna aprire la Renara e chissà quale altra area preclusa dove la Natura può permettersi di respirare.

Non dimentichiamo però che il suo respiro è la vita per tutti noi.

Prof. Roberto Minervini (Vice-Presidente APE)

Orvieto, 23.02.2007