Il Prof. Andrea Borgia, geologo, vulcanologo e valutatore ambientale, profondo conoscitore della geotermia amiatina, replica al Prof. Alessandro Sbrana, del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa che, insieme ad un gruppo di collaboratori, ha recentemente pubblicato alcuni articoli ( 1 – 2 – 3) in merito ai risultati di studi sulle emissioni naturali di CO2 nell’area geotermica del Monte Amiata; questi studi, finanziati da ENEL, portano gli autori a concludere che il degassamento della CO2 avverrebbe comunque, anche se le centrali non fossero presenti ed anzi, il loro funzionamento ne diminuirebbe l’entità.
Innanzitutto il Prof. Borgia sostiene che, indipendentemente dalle emissioni naturali, quelle di CO2 misurate in corrispondenza dei camini delle centrali appartengono comunque alle centrali in quanto impianti industriali e non possono attribuirsi ad altre cause.
Allo scopo di confrontare le emissioni delle centrali con quelle “naturali”, è da considerare che le misurazioni utilizzate per il calcolo di queste ultime, misure peraltro estrapolate sembra arbitrariamente ad un’area molto vasta attorno ad ognuna di esse, sono state effettuate durante il periodo estivo e durante il giorno, cioè quando i loro valori sono generalmente massimi: durante la notte e negli altri periodi dell’anno questi valori potrebbero ridursi di decine se non di centinaia di volte.
Mancando poi una quantificazione attendibile delle emissioni in epoca precedente allo sfruttamento geotermico, risulta piuttosto arbitraria l’attribuzione a cause naturali di un fenomeno che anch’esso potrebbe essere in realtà la conseguenza di 60 anni di sfruttamento: la caduta di pressione che si ha nell’area di influenza di ogni pozzo estrattivo, provoca il fenomeno dell’essoluzione (cioè della separazione) della CO2 dal fluido geotermico, e quindi la sua risalita in superficie sia attraverso i pozzi che lungo le vie naturali, costituite dalle fratture e dalle faglie presenti nella roccia.
Infine la stessa attività geotermica produce CO2, sia perché il liquido reiniettato, venuto a contatto con l’aria, risulta più ricco di ossigeno e favorisce le reazioni di ossidazione delle rocce dei campi geotermici, sia perché la combustione catalitica dell’Idrogeno solforato che ha luogo negli impianti AMIS produce indirettamente ulteriore CO2 che viene liberata in atmosfera. Peraltro sembrerebbe che tutti questi sono aspetti non siano mai stati effettivamente sottoposti a valutazione d’impatto ambientale.
In ogni caso le emissioni di CO2 dimostrano che gli strati di terreno che separano il campo geotermico dalla superficie non sono impermeabili: ciò porta con sé la conseguenza che anche l’acquifero idropotabile contenuto nelle vulcaniti del Monte Amiata è connesso tramite faglie, fratture, camini vulcanici e, appunto, rocce permeabili ai campi geotermici.
Quindi, i gas (tra cui anche l’arsenico) che risalgono dal campo geotermico verso la superficie e verso l’acquifero, lo possono inquinare; fatto già dimostrato dalle rilevazioni dei piezometri della Regione Toscana e di ENEL. Allo stesso tempo, l’acqua potabile dell’acquifero può percolare verso i campi geotermici inquinandosi irrimediabilmente.
La sola alternativa, alla attuale impattante forma di sfruttamento geotermico, è rappresentata dalle più recenti tecnologie (GreenFire o Eavor), che si basano su pozzi profondi a circuito chiuso (come alcuni tipi delle comuni sonde geotermiche) all’interno dei quali viene fatto circolare un liquido che estrae solo il calore geotermico, senza nessuna movimentazione di materia dal sottosuolo.
Rete nazionale NoGESI